Zone agricole del Parco del Serio

 

Le zone agricole occupano un’ampia fascia all’interno del territorio del Parco e la loro gestione costituisce senza dubbio una funzione fondamentale da parte dell’Ente Parco. Anche la legge regionale della regione Lombardia 86/83 che disciplina le aree protette prevede una particolare attenzione “allo sviluppo delle attività agricole, silvicole e pastorali e delle attività tradizionali atte a favorire la crescita economica, sociale e culturale delle comunità residenti”.

 

Il fenomeno economico che incide in maniera evidente sul territorio è quello della diminuzione del numero di aziende agricole con un conseguente accorpamento dei terreni agricoli. La progressiva eliminazione delle fasce boscate presenti ha portato a una semplificazione e banalizzazione del paesaggio agricolo, causando una diminuzione dell’habitat. Il periodico prelievo operato tramite i raccolti impoverisce i suoli e causa la necessità di ristabilire artificialmente i cicli biogeochimici tipici di un ecosistema naturale; ciò va realizzato tramite concimazioni e integrazioni minerali. Inoltre alle colture promiscue del passato si sono sostituite vere e proprie monocolture, rotazioni agricole molto ravvicinate e l’eliminazione di colture consociate quali ad esempio i filari e le siepi che bordavano i diversi mappali

 

STORIA DEL PAESAGGIO AGRARIO BERGAMASCO

Le testimonianze più importanti riferite alla presenza di popolazioni all’interno del territorio del Parco risalgono circa a 60.000 anni fa. La transizione dall’ economia di caccia e raccolta all’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento è avvenuta tra il 4500 e il 3000 a.C..Testimonianze del Neolitico sono state rinvenute a Mozzanica (reperti del Neolitico, dell’età del Rame e del Bronzo), a Fornovo San Giovanni (reperti del Neolitico, dell’età del Rame, del Bronzo e del Ferro) e a Zanica (reperti dell’età del Ferro). In questa fase l’azione dell’uomo consisteva nel bruciare le aree da coltivare che venivano utilizzate per pochi periodi produttivi e poi abbandonate. Successivamente il passaggio ad un’agricoltura più stabile con insediamenti fissi ha comportato una divisione netta tra campo coltivato e bosco intorno al campo. In questa situazione il bosco rappresentava un importante area utile per fornire legna da ardere, pascolo dei suini e degli ovini, terreno di raccolta di foraggi, frutti selvatici ed erbe officinali. Il bosco forniva anche legname da opera, foglie per l’alimentazione del bestiame e per le lettiere e frutti per l’alimentazione del bestiame e dell’uomo.

 

In epoca preromana in seguito all’opera dei Galli e degli Etruschi si erano già diffusi campi a maggese e vigneti. Qui si attuava una coltivazione della vite che prevedeva l’utilizzo di tralci alti, un sostegno vivo che consente una cultura promiscua nella quale oltre alla vite alta è possibile consociare la coltura dei cereali più in basso.

 

Con l’avvento della colonizzazione Romana dal I secolo A.C. si attuarono sul territorio le traformazioni maggiori. I terreni venivano divisi in lotti seguendo linee geometriche perpendicolari: le più importanti erano il Decumano e il cardo massimi, la prima tracciata in direzione est – ovest e la seconda in direzione nord – sud. Queste linee delimitavano la partizione primaria, chiamata centuria con un lato di 710 m e una superficie pari a circa 50 ha. Questa suddivisione del territorio è stata alla base dello sviluppo della viabilità e alla definizione dei limiti dei campi e delle fasce di siepi e delle rogge ai margini dei campi. In questa situazione si diffuse la villa rustica all’ìnterno della quale si faceva un largo utilizzo di schiavi utilizzati per i vasti latifondi cerealicoli. Le presenze boschive erano tuttavia ancora importanti e all’interno di queste zone si cominciò a favorire essenze quali il castagno e il noce utilizzato come materiale da costruzione.

 

A partire dal tardo medioevo si osserva invece nella cartografia una riduzione dell’estensione dei terreni coltivati dove venivano coltivate anche erbacee come il miglio, il panico, la meliga, la canapa e il guado. La variazione strutturale dei consorzi forestali in seguito alla riduzione della loro estensione ha portato a una riduzione dell’estensione di questo habitat con una conseguente diminuzione della biodiversità complessiva ed una selezione delle specie più adattabili in seguito all’aumento all’effetto margine. In pratica oltre alla diminuzione dell’estensione dell’habitat si è originata una variazione delle condizioni ecologiche forestali. L’aumento della disponibilità di luce e calore e la diminuzione dell’umidità atmosferica a causa della diminuzione dell’evapotraspirazione hanno comportato una regressione delle specie a distribuzione centro – europea che dominavano il centro della formazione forestale chiusa e matura e hanno favorito le specie euri – mediterranee e sud – est europee più adatte a condizioni di maggiore luminosità e aridità.

 

La vita agricola si mantenne simile per lunghi periodi fino alla peste del 1629 e 1630 che diminuì drasticamente la popolazione. Fondamentale all’interno di questo tipo di economia era l’apporto della forza lavoro ottenuto dai figli. Le costruzioni e le tipologie abitative si adattavano alla presenza di queste famiglie allargate i cui membri potevano darsi mutuo soccorso in caso di malattie o infortuni. Bisogna tenere presente che un uomo era in grado di lavorare al massimo 1 o 2 ettari di terra.

 

Dalla fine del seicento cominciarono a diffondersi due colture che avrebbero segnato in maniera sostanziale l’assetto del paesaggio: il granoturco e il gelso. Il primo introdotto già un secolo prima cominciava a diffondersi sempre più mentre il secondo era legato all’inizio alla produzione della seta ad opera dei bachi nutriti dalle foglie di gelso tritate. Il mais era sì in grado aumentare la produzioni in termini di calorie fornite ma risultava da solo insufficiente a garantire la qualità dell’alimentazione a causa della carenza di proteine e vitamine a cui era soggetta la popolazione. In questo periodo i tre ambienti cardine di una proprietà erano costituiti dai terreni a seminativo, dai prati da sfalcio e dalla quota di bosco. Queste colture richiedevano ingenti quantità di concime e il rapporto con gli allevatori costituiva un altro importante fattore per ottenere il letame necessario. Va evidenziato che gli allevatori utilizzavano i terreni di pianura solo durante l’inverno quando portavano a svernare il bestiame dai pascoli estivi delle montagne. L’aspetto della campagna era quello di vaste aree agricole interrotte dai villaggi. La coltivazione del mais intanto richiedette la sostituzione dell’aratro con la vanga tramite la quale era possibile rivoltare più in profondità le zolle ed accedere agli strati di humus più profondo. Questa lavorazione richiedeva però più braccia è ciò creò le condizioni per la scorporazione di alcuni campi e all’affidamento di parti a salariati avventizi.

 

La caduta della Repubblica di Venezia nel 1797 a sua volta costituì una spinta alla gelsicoltura grazie alla diminuzione del sistema di tributi compiuto su questa attività: si giunse così alle prime filande vere e proprie. Si operò così un’opera di piantumazione di gelsi a scapito delle altre essenze. Giunti alla metà dell’ottocento cominciarono i lavori per la costruzione delle linee ferroviarie per la cui costruzione venivano utilizzate in particolare traversine in rovere. Ciò creò un notevole impatto sulle formazioni boschive ancora ben presenti sul territorio. Giunti alla fine dell’ottocento e all’inizio del novecento si verificarono però le trasformazioni più nette con l’introduzione dei macchinari e l’utilizzo dei concimi di origine chimica. La diminuzione del costo dovuto ai trasporti comportò in particolare il deprezzamento dei prodotti delle pianure centrali del Nord America e del Canada che divennero più competitivi di quelli europei e causarono una crisi in tutta Europa. Ciò si manifestò con un’ondata di emigrazione di milioni di uomini verso le Americhe dove c’èra la possibilità di accedere a terre vergini. L’emigrazione non bastò comunque a ridurre la popolazione nella Bergamasca e nei primi decenni del 900′ in molti casi era più favorevole ai conduttori dei fondi assumere salariati piuttosto che acquistare nuove macchine agricole con un rallentamento della velocità di modernizzazione dell’agricoltura.

 

A partire dagli anni cinquanta la cosiddetta rivoluzione verde portò all’ultima rapida espansione dell’utilizzo di mezzi agricoli meccanizzati con il conseguente svuotamento delle campagne e della forza lavoro impegnata nel settore primario. In una prima fase molti uomini impiegati delle industrie mantenevano campi che coltivavano dopo l’orario di lavoro e nei giorni festivi.

 

Oggi la campagna sta subendo una trasformazione in senso prettamente industriale in seguito alla nascita di poche grandi aziende che gestiscono centinaia di ettari di territorio. Ciò con tutti i problemi ambientali connessi a una visione solo produttivistica del paesaggio agricolo, dimentichi delle sue valenze storiche, architettoniche e culturali.